La costante crescita di reati a livello terroristico e di criminalità organizzata ha reso sempre più concreta l’esigenza di dotare le Forze di polizia di adeguati strumenti di prevenzione e contrasto, intensificando così lo scambio di informazioni tra gli Stati. Per rispondere a tali richieste, l’utilizzo del DNA fingerprint e lo sviluppo dei database genetici per fini giudiziari paiono essere tra le risposte più efficaci. Il volume si propone, attraverso un’analisi in ottica comparata e in chiave multidisciplinare, di comprendere quale sia il bilanciamento possibile tra ragioni securitarie e tutela delle libertà individuali in un contesto che deve tener conto di una crescente biologizzazione della sicurezza. Se molti Paesi da tempo possiedono una Banca dati del DNA, ci si chiede se tale strumento possa essere fonte di nuove forme di discriminazione o addirittura, come ipotizzato da alcuni, condurre verso una over surveillance society. I Paesi individuati fra le democrazie liberali per questa analisi sono stati selezionati sulla base di parametri oggettivi: alto numero di abitanti; adozione di leggi specifiche sulle banche dati; numero di profili contenuti nei database. Il libro, suddiviso in quattro capitoli, prende avvio da un excursus storico-tecnico legato alla rilevanza giuridica del dato genetico, nella non facile dicotomia tra scienza e diritto. Dopo aver analizzato il tema della raccolta e utilizzabilità dei dati genetici per scopi forensi nella normativa internazionale ed europea alla luce del Trattato di Prüm e i successivi recepimenti della normativa comunitaria, vengono approfondite le esperienze di Regno Unito, Germania, Francia e Portogallo, per terminare con gli Stati Uniti. Il quarto capitolo entra infine nella dimensione italiana, a partire dal faticoso iter normativo della legge 85/2009 istitutiva della Banca dati, conclusosi con l’approvazione dei regolamenti attuativi e di vari decreti ministeriali fra 2016 e 2017, anche se solo il 2018 vedrà la piena operatività della Banca dati nazionale.